Tradotto da Monica Manicardi
La mia espressione scritta è nata dalla mia inespressività verbale. Non sono mai riuscita a comunicare con gli umani, dentro di me abitano mondi e vulcani in eruzione, ma fuori sono un iceberg, la ruvidezza stessa. Mi è difficile avvicinarmi alle persone, non sono timida, anzi sono audace, ho facilità di parola grazie alla mia Alma Mater, il mercato dove sono cresciuta vendendo gelati, quell’esperienza mi ha insegnato a farmi strada e cercare la vita correndo, la vergogna non serve per la sopravvivenza; quindi grazie a quegli anni usciti dai commensali per offrire loro i buonissimi gelati che vendevo e cercando di convincerli praticamente a fare piroette in aria, posso esprimere senza problemi la mia opinione, presentarmi, parlare di vari punti. Ma non i sentimenti, quando si tratta di sentimenti ed emozioni il mio mondo è completamente isolato e inabitabile. Sono un vuoto insondabile.
Ho iniziato a scrivere poesie all’età di 13 anni, quando vivevo a Ciudad Peronia, il sobborgo in cui sono cresciuta, in Guatemala. Ma il lavoro quotidiano era troppo che non c’era tempo nemmeno per mangiare e tanto meno per il tempo libero, il tempo libero era classificato come pigrizia e non esistono pigri nella periferia, il bisogno costringe ad andare contro il tempo; quindi quei 10 o 15 minuti che impiegavo al giorno per scrivere significavano smettere di pulire il pollaio in poche ore o pulire il recinto dei maiali in tempo, nutrire gli animali in tempo e mungere le capre in tempo, un ritardo di cinque minuti causava una mancanza di controllo per chi di noi è abituato ad andare di fretta: la periferia lo sa. Ogni sogno, ogni desiderio è stato abbattuto dalla fame, dal freddo e dalla povertà.
Negli strati che ricoprono la purezza dell’anima, nel più profondo c’era il mio amore per la pittura, è stato bloccato dalle porte in faccia che ho preso contro la realtà. Impedire la poesia e l’arte ha aiutato la mia sopravvivenza in quegli anni, perché avrei dovuto desiderare qualcosa di impossibile, gli acquerelli erano un lusso che i bambini di Peronia non potevano permettersi. Scrivo queste parole sinceramente, senza la ricerca di inutili drammi non necessari, ma con la responsabilità che mi costringe a raccontare l’essenza della periferia…, perché sono sicura che non sono l’unica che si è bloccata e ha sbattuto la testa contro il muro, bruciando di rabbia per non potersi illudere di una realtà diversa da quella che doveva vivere.
Negli anni sono emigrata, a 23 anni, sono arrivata giovane per lasciare ciò che restava dei miei polmoni sui pavimenti delle ville dove lavoravo come domestica negli Stati Uniti, qui ho continuato il mio lavoro di mille mestieri con cui sono cresciuta, cercando anche la vita correndo solo perché indocumentata, senza lo status di niente o di essere umano. Le ragioni dell’angoscia e della paura degli irregolari sono diverse da quelle del paese di origine, ma alla fine è angoscia. Qui la mia espressione si trasformò in un soffocamento, un dolore sordo, un nodo di sale in gola; causato dalla nostalgia, dalla depressione post-confine, dallo stigma e dal blocco di ghiaccio enorme come un muro che era la lingua inglese, di cui ero completamente all’oscuro. Dopo 6 anni di emigrazione, stanca di tutti quegli anni senza riuscire a dormire neanche una notte a causa degli incubi provocati dai ricordi della mia esperienza di frontiera, una mattina ho cominciato a scrivere una poesia che ho finito al sorgere del sole. Ed è stata una catarsi totale perché piangevo ad ogni parola. Piansi per la mia frustrazione, per il mio malcontento, per il dolore di sentirmi una zavorra. Quella poesia che ho intitolato Nostalgia, è stata la luce di un nuovo giorno della mia vita, una piccola fessura di una finestra, direi che era come la rugiada dell’alba. Un’alba che è durata altri lunghi anni perché il mio processo è stato lento, ma l’ho superato con la scrittura, prima con le poesie, poi con i racconti, e poi con articoli d’opinione. A poco a poco si riaprivano le ferite che non si chiudevano e io le ho affrontate, ho cercato di curarle rimuovendo croste e sangue marcio per sfogarli e farle guarire col tempo. E questo è stata la scrittura per me, una cura. Una pozione che ha permesso al mio spirito di guarire il suo dolore. Il dolore dell’esclusione, del sovraccarico di lavoro fin dalla mia infanzia, dell’incomprensione, delle botte ricevute, del razzismo, della povertà. Perché sì, noi lavoratori siamo stati costretti a vivere la durezza della povertà e dell’esclusione.
La pittura è arrivata molti anni dopo da quel desiderio infantile, è arrivata nella diaspora, dopo diversi anni di scrittura, immagino che sia emersa dal profondo della mia anima quando avevo già tolto parecchie spine grazie alla scrittura. Perché la mia terapia sono stati i testi. È arrivato inaspettatamente ed è stata una gioia per il mio spirito, il piacere assoluto, una pace. La mia pittura riflette la pace del mio spirito. Con la scrittura accade il contrario, con la scrittura posso esprimere la mia rabbia, la mia frustrazione, il mio malcontento, con me stessa e con il sistema, invece con la pittura solo sgorga dalla mia anima la tranquillità e sono tornata ad essere bambina, non riesco a vedermi come donna adulta nella pittura, nella pittura sono una bambina. E sono una bambina felice, come dovrebbe essere l’infanzia di tutti i bambini del mondo.
Non conosco le tecniche, non conosco completamente i fondamenti dell’arte, la scuola d’arte, non posso permettermi di prendere lezioni di pittura, non pagherei l’affitto se lo facessi. Perché anche qui sono operaia e vivo alla giornata. Per acquistare i miei colori, i miei pennelli e le mie tele ho dovuto risparmiare, ne ho fatto la mia priorità, adattandomi e smettendo di comprare altre cose essenziali. Perché per me è molto importante accarezzare questo amore, nutrirlo, proteggerlo, questo amore di bambina che ha bisogno del mio cappotto o meglio, sono io quella che ha bisogno di quell’amore e di quel riparo di quella bambina che è apparsa all’improvviso con i suoi colori accesi per riconciliarmi con la mia infanzia. Con la pittura ho imparato a difendere chi sono, cosa sono, a difendere la mia essenza, per avere chiaro che il mio stile è il mio stile e che fare le cose a modo mio è sempre stato il mio modo, cioè: essere autentica, anche se il mondo mi chiude le porte in faccia.
E ho anche imparato che non c’è bisogno o spazio per la frustrazione e la rabbia, perché ovviamente ho dei limiti perché le mie mani non hanno familiarità con i pennelli e le tecniche, ma come ogni cosa nella vita si impara e ci vuole tempo e pratica. Ma prendere un pennello e mettere i colori sulla tela per me è già una realizzazione. È la mia realizzazione personale. Il resto, il resto in verità non importa. E mi sono sempre piaciute le cose semplici, io stessa sono molto semplice, non scrivo con parole elaborate e non cerco eccessi nella pittura.
Ho diverse serie, una delle mie preferite è la serie Mamma Africa che venero e amo, perché è la radice, la mia radice ma la radice di tutti i continenti e dalla quale ho ereditato i miei capelli e il colore della mia pelle. C’è la serie Radici, e l’ultima su cui ho lavorato è la serie La mia famiglia, che riguarda le caprette con le quali sono cresciuta, gli amori della mia vita, le uniche che mi permettono di essere me stessa ed esprimermi. La serie La mia famiglia è puro amore per le caprette.
La scrittura è l’espressione della mia anima, ma la pittura è la realizzazione del mio spirito. Chi vuole conoscermi deve solo vedere i miei quadri, mi conoscerebbe meglio che parlarmi di persona. E poiché tutto ciò che facciamo o smettiamo di fare nella vita è un atto politico, continuo a scrivere e a dipingere per necessità e resistenza. La mia essenza è sempre stata quella di essere stolta, per essere così ho ricevuto grandi percosse e sono stata esclusa e per stoltezza alzo la voce nella scrittura e il mio spirito nella pittura.
Perché il giorno in cui non sarò più al mondo voglio che quando una bambina di periferia si sente sola, rifiutata, violentata, esclusa e si sente un peso, sappia che anche in altri tempi, un’altra bambina di periferia cresciuta in povertà come lei, che è stata aggredita e scartata, si sentiva come lei e dopo aver sbattuto la testa contro il muro e annegarsi nell’alcol, ha iniziato a scrivere e dipingere ed entrambe le cose davano un senso alla sua esistenza. Voglio che quella bambina sappia che vale la pena e la gioia di resistere.
Sarà il mio abbraccio, il mio rifugio di sorella per queste bambine, e sono sicura che il tempo mi permetterà quel ricongiungimento con loro, anche se non lo sarò più fisicamente, perché tutte le anime che sono destinate a coincidere si incontrano al momento giusto. Come me che ho trovato altre anime ancestrali che mi hanno abbracciata e protetta come sorelle da diverse parti del mondo e dalla storia.
La mia eredità per loro, bambine di periferia, è la resistenza attraverso la scrittura e l’arte.
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Ilka Oliva Corado @ilkaolivacorado