Tradotto da Monica Manicardi
Dopo la recinzione la patria diventa un desiderio ricorrente. I clandestini lo sanno più di chiunque altro. Diventa come una vecchia lettera di carta strappata dopo essere piegata più volte. È nel ricordo dei giorni di pioggia, del campo di grano in crescita, dei fiori freschi di chipilín e dell’aroma del caffè cotto in una pentola di terracotta. La nebbia della terra che è stata lasciata dall’altra parte del recinto attraversa i confini e si insinua tra le fessure delle finestre dei grattacieli dove lavorano pulendo i bagni e i pavimenti le generazioni che sono dovute emigrare perché nella propria terra, hanno trovato solo violenza e fame; sono stati dimenticati e costretti ad emigrare in massa.
Le tenere foglie dei guayabos rossi appaiono lampeggianti tra l’arsura di mezzogiorno nei solchi di coltivazione dove migliaia di lavoratori senza documenti lavorano in squadre, sognano con l’acqua fresca del fiume e con l’ombra dei tamarindi; la patria dunque è un delirio. Si fa sentire sulle spalle dei muratori che portano i pacchi nelle grandi costruzioni, perché l’indocumentato è sempre l’ultimo, quello che trasporta di più, quello che lavora più ore, quello che riceve meno paga, quello che dice sempre di sì, quello che non puoi mai dire di no; lì la patria ferisce l’anima.
C’è dolore nelle mani delle donne che puliscono le case, nell’artrite delle ossa, nelle braccia delle balie che accudiscono i figli degli altri mentre i loro sono rimasti in una terra lontana alle cure dei nonni o delle zie; la patria quindi è un vuoto insondabile. Fa male negli addii che non si sono potuti dare, nelle notizie che arrivano della morte dei propri cari, negli abbracci rimandati, nelle promesse, nei progetti futuri, nel bisogno di ricongiungimento, negli ultimi saluti quando si accende una candela e si prega in lontananza per il riposo dell’anima di colui che è morto; lì nel trambusto di una stanza piena di immigrati privi di documenti.
Fa male la pretesa dei bambini che chiedono dall’altra parte del recinto, il rifugio e la compagnia. C’è dolore nei piedi gonfi e la pelle rovinata di coloro che hanno camminato per giorni fuggendo dalla fame e dall’esclusione, cercando in altre terre una tregua. C’è dolore nel tenero pube delle ragazze violate che sono state carne da macello sul sentiero spinoso dove transitano i migranti privi di documenti correndo impauriti in altri terreni dove sono visti come rifiuti; allora la patria è una ferita aperta e un trauma che dura tutta la vita.
La patria che esclude, che violenta, che muore di fame, che scompare, che sputa, che umilia, che costringe ad emigrare. Che separa le famiglie. È la patria che fa male, il pezzo di terra di chi è ancorato al petto, che affiora tra i pori, che palpita senza fatica nel cuore ferito, che si indurisce sulla pelle, che invecchia nella fatica degli anni e alla quale vogliono tornare un giorno, è la patria ingrata che riceve milioni di dollari in rimesse dei bambini che hanno costretto a migrare e che non la dimenticano mai: è la patria degli indocumentati e per amarla così bisogna avere il coraggio di saltare dall’altra parte della recinzione, non una qualsiasi!
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Ilka Oliva Corado @ilkaolivacorado