L’eco del canto dei galli

Tradotto da Monica Manicardi

Afferra suo figlio Yeyo, lo avvolge nella coperta e se lo mette sulla schiena. Sul tavolo mette due cambi di vestiti, il pettine, il borotalco del bambino, un flacone di crema per il viso, un paio di scarpe con le suole rotte – che pensa di farle riparare quando arriva – una busta con fotografie e alcune pezzi di magliette che ha fatto pannolini. In una coperta mette un sacchetto con una manciata di sale, delle tortilla che ha fritto la mattina e l’ultimo pezzo di formaggio fuso che gli è rimasto. Una testa d’aglio, due limoni e qualche foglia di menta in caso si senta male a causa del camion. Riempie d’acqua un contenitore di plastica da mezzo litro, appoggia il tutto sulla tovaglia e lo lega facendone una borsa che si mette sulla spalla. Nell’altro mette in un sacco Papayo – il cane che ha salvato dal giorno in cui è nato nella discarica-. Chiude a chiave la porta e se ne va senza voltarsi.

La raggiunge Maura, senza fiato per aver corso, la abbraccia e le porge una borsa con la frutta jocote rossa di febbraio, alcuni teneri manghi e cento quetzales, che sono tutti i suoi risparmi, per potersi aiutare con il biglietto -lei le dice, abbracciandola morta di pianto, sono amiche da una vita-, a Isaura le affida la sua casetta di mattoni, le sue piante di coriandolo e il tamarindo che è riuscito ad attaccarsi. Sono le quattro del mattino, sale sull’autobus, mentre lascia la sua nativa Teculutan, Zacapa, si lascia alle spalle l’eco del canto dei galli e l’odore del latte appena munto, non lo sa ma non tornerà mai più, quello che tornerà è Yeyo, tra trent’anni, a deporre le sue ceneri nel cimitero accanto alle spoglie dei nonni e ad occuparsi della casa di mattoni, dei cespugli di coriandolo e di riposare all’ombra del tamarindo insieme ai nipoti di Papayo.

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Ilka Oliva-Corado @ilkaolivacorado

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