L’arrivo dell’alba

Tradotto da Monica Manicardi

Gli ultimi tre anni delle elementari,  l’ora della ricreazione la passavo  con le orecchie d’asino, guardando verso il muro in direzione della scuola. Era la mia punizione in tutti le pause, non ce n’era una  di cui potessi usufruire. Ho sempre voluto di più, ho desiderato più di quanto le circostanze della mia vita mi permettessero, ho sempre sognato la libertà e l’equità fin dalla tenera età. Quindi ero una bambina tremenda che era fuori dalla norma, piena di energia, che pensava di essere  un’altra capra della mandria che pascolava, che non è mai tornata nel gregge. Nelle ricreazioni chiedevo giochi quando i bambini, i miei compagni di classe, iniziavano a giocare a calcio, loro non mi davano il gioco perché ero una bambina, il che mi faceva infuriare, quindi li sfidavo a pugni e finivo sempre per vincere.

Quando arrivava l’insegnante, l’orlo della mia divisa  me l’avevano già distrutto, arrotolato avanti e indietro per terra nel cortile, e quei bambini mi  avevano arruffato i capelli strappandoli, perché avevo sempre i capelli lunghi e disordinati. È un’altra delle mie ribellioni. L’insegnante mi prendeva per un lato dell’orecchio e mi portava dalla direttrice  e le diceva che mi aveva trovato a litigare con i bambini, la mia punizione: mettere le orecchie d’asino che avevano fatto di cartoncino e mi dicevano di voltarmi verso la parete. Non portavano mai nessuno dei miei compagni dalla direttrice, quella che veniva punita ero sempre io. 

Forse se i bambini mi avessero battuto nei combattimenti, la storia sarebbe stata diversa? La verità è che non sono mai stata una bambina debole esternamente, anzi al contrario, interiormente. Non ho mai sentito l’insegnante o la direttrice dire che anche  le bambine avevano il diritto di giocare a calcio, anzi, quando hanno saputo le mie ragioni, mi hanno detto che le bambine dovevano giocare con le bambole, o altri giochi, giochi da bambine, non di bambini. E ho sempre, per tutta la vita, fatto cose da bambino perché non ho mai creduto che non ci sia qualcosa che noi donne non possiamo fare, il prezzo che ho pagato è stato alto, ma continuo a insistere perché sono per natura una capra pazza e in fin dei conti, i muli  sempre arrivano sul monte.

Nei  giorni di fine anno, in una di quelle tante volte che il maestro mi sollevava per la criniera, invece di portarmi in direzione per la mia punizione con le orecchie d’asino, mi aveva portato in una stanza, ha preso il registratore ha messo  una cassetta, mi ha detto di ascoltare con attenzione la canzone e che quando mi sentivo sola e sconfitta, quando provavo rabbia e dolore, dovevo ascoltare quella canzone, erano gli Abba che cantavano Chiquitita. Poi ha messo su un’altra cassetta, del gruppo Tormenta, la canzone: Arrivederci, ragazzi del mio quartiere. Io che non sono mai riuscita a parlare o esprimere i miei sentimenti o le mie emozioni, non gli ho detto niente, sono rimasta in silenzio piangendo per  essere stata punita per aver cercato di giocare a calcio con i bambini. Quella è stata una delle prime sconfitte che ho vissuto. All’infanzia non bisogna tagliarle le ali, nemmeno piegarla, per nessun motivo.

Negli anni in cui ascoltavo Chiquitita, ho pianto tantissimo, non l’ho mai cercata, ma è apparsa in momenti inaspettati, allora piangevo l’amarezza della mia frustrazione. Sono sempre stata trattata come una causa persa, l’ultima, quella dimenticata, per la quale non devi scommettere nulla perché si perda. Ho raggiunto l’adolescenza e ho continuato a combattere dando pugni con i ragazzi, per lo stesso motivo: l’equità e il mio diritto di giocare a calcio. Ero l’unica ragazza che giocava a calcio nella colonia in quel momento. Per poterlo fare dovevo combattere con tutta la squadra,  ogni volta, per tanti anni, finché un giorno hanno capito che non potevano continuare a negarmi il diritto. Ho festeggiato quella piccola vittoria con la birra, certo, come dovrebbe essere, è il sobborgo.

Non avrei mai immaginato che avrei compiuto 18 anni, ho sempre creduto che sarei morta prima, i 18 anni erano così lontani perché ogni giorno era un tormento di voler morire e non svegliarsi. Non ho mai voluto vivere oltre i 18 anni, la mia vita era troppo dura per volerla rimandare ancora. Oggi, 11 novembre 2021, compio 18 anni dopo essere arrivata in questo mio paese in affitto, dove sono diventata straniera. Come se nulla fosse sono trascorsi 42 anni nella mia vita. Quest’anno è stata la prima volta che ho festeggiato il mio compleanno, essendo viva ed è stato il primo anno che non ho pensato di suicidarmi.

Ieri sera, mentre dipingevo, ho messo la radio sul cellulare e all’improvviso l’imprevisto, che era come un soffio di vita, la canzone degli Abba, Chiquitita ed io ho pianto e ballato con i pennelli in mano, ma per la prima volta  non ho pianto di dolore, né di frustrazione, né di rabbia, ma ho pianto di gioia, di speranza, di gratitudine.

Perché essendo straniera, in questo mio cammino migrante, in questo pezzo di terra che ho imparato ad amare, in uno dei miei tanti labirinti e pellegrinaggi emotivi, deduco che alcuni dei miei deliri  l’hanno chiamata con tanto impegno che lei li ha  ascoltati e avuto l’umiltà da quell’altezza di scendere in questa collina dove mi trovo, è la Nuvola Passeggera che mi ha riparato, che mi ha ascoltato, con la quale posso parlare, quella che mi ha fatto sentire amata  e apprezzata , quella che non mi giudica e non mi fa vergognare di chi sono e come sono, quella che mi ha fatto creare e scrivere al di là della mia goffaggine e aridità. Quella che mi ha fatto dipingere e così realizzare il mio sogno di bambina. E quella che in questo momento è qui con me, in questa pioggia leggera che vedo cadere dalla finestra del mio nido-studio. Perché nei giorni la trasformo in pioggia, in nebbia, nel sole, in una foglia d’acero, in un ramo di quercia, in un bicchiere di vino, nei colori dei miei quadri, nelle parole della mia poesia. Nell’aria che respiro.

La strada non è stata facile, ma oggi dalle mie forze non dal mio corpo spezzato, perché  poco a poco è stato guarito, posso dire a quella bambina che si è sempre sentita una causa persa, alla quale hanno messo le orecchie d’asino nella direzione della scuola e che la punivano durante la ricreazione, guardando il muro, alla quale tutte le porte le hanno chiuso in faccia, che  valeva la pena resistere perché oggi l’alba è finalmente arrivata. E che sono estremamente orgogliosa della sua stupidità, della sua aridità, della sua rozzezza, della sua essenza contadina, dei suoi capelli spettinati, del colore della sua pelle, del suo odore, del suo naso di nera, delle sue sciocchezze, dei suoi deliri, delle sue decisioni a volte non così riuscite, delle sue regressioni,, del suo modo di amare, perché tutto, proprio tutto l’ha portata ad essere quello che è oggi. E la celebro e la proteggo e la amo e la ammiro, ogni giorno un po’ di più. E gli dico anche che senza dubbio continueranno ad esistere i giorni difficili, che in realtà sono la maggioranza, ma che con la sua forza saprà superarli come ha sempre fatto e con il suo sorriso li saprà ringraziare  perché portano con loro l’apprendimento.

A: Carolina Vásquez Araya, il giorno del chipi chipi.

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Ilka Oliva Corado @ilkaolivacorado

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