Tradotto da Monica Manicardi
Nel momento in cui i terreni sollevavano la polvere nelle strade appena costruite a Ciudad Peronia, arrivò una famiglia che aveva aperto un negozio di tortilla e aveva anche il noleggio delle biciclette. Per avere quelle due attività in un sobborgo pieno di persone povere, quelle persone avevano soldi, tre dipendenti (indigene) che facevano le tortillas in tre turni e gli uomini di casa erano incaricati del noleggio di biciclette che si contavano in dozzine, questo all’inizio degli anni novanta.
In periferia nessuno aveva i soldi per noleggiare una bicicletta da solo, quindi quello che facevamo era collaborare tra noi ragazzi, per racimolare le monetine si cercava anche sotto le pietre e il lavoro comune era andare a raccogliere la spazzatura: andare di casa in casa raccogliendo sacchi di immondizia e andando a gettarli nel burrone che da sempre è stata la discarica ufficiale della colonia. Ci pagavano a seconda delle dimensioni, nessuno pagava più di dieci centesimi. Il noleggio della bicicletta costava cinquanta centesimi per mezz’ora. In quella mezz’ora toccavamo il cielo con le mani, eravamo in 16, tutti in fila nella strada. La mezz’ora misurata puntualmente, se trascorreva un minuto in più lo facevano pagare. Abbiamo sempre affittato le BMX con i poggiapiedi, in modo ogni giro ce ne fossero due contemporaneamente, uno che conduceva e l’altro appollaiato dietro.
Senza campi sportivi, senza parchi ricreativi, dovevamo inventare noi stessi le distrazioni, i dirupi erano i nostri spazi di spedizione e la bicicletta e il calcio i nostri catalizzatori. Quello che desideravamo, una bicicletta, era il sogno impossibile in quella povertà. L’unica ragazza del gruppo ero io, come tutti i bambini di un gruppo ne facevamo una , tutti per uno e uno per tutti. A casa, vedendo il mio entusiasmo per la bicicletta, mi dicevano che se avessi vinto l’anno scolastico me ne avrebbero comprata una e alla fine dell’anno non succedeva, così ho finito le elementari e la bicicletta non è mai arrivata e il mio cuore di bambina si spezzava alla fine di ogni ciclo scolastico. Un giorno arrivò uno zio con una bicicletta sgangherata, completamente inutile, era una californiana che chiamavo «corna di capra» perché il manubrio era così, con le corna di caprone. Me la regalò e con un amico che verniciava auto l’abbiamo dipinta, riparato i freni e le gomme, tornò come nuova. Nella corna di capra, noi salivamo tutti 16, avevamo messo gli appoggia piedi dietro e 3 alla volta facevamo un giro. Il mio entusiasmo è durato un anno perché l’anno seguente è arrivato mio zio e quando l’ha vista così ben sistemata l’ha portata via senza dirmi niente e quando sono tornata da scuola la mia californiana non c’era più, il mio cuore si è spezzato di nuovo. Due cose che desideravo ardentemente nella vita: una bicicletta e una macchina fotografica.
Non appena mi diplomai insegnante di educazione fisica, ho mantenuto la mia promessa e con il mio primo stipendio ho comprato a rate una bicicletta da montagna, con i suoi due ammortizzatori, io stessa avevo realizzato il mio sogno di bambina e quel giorno in cui sono uscita dal negozio con la mia bici ero molto felice. Sono andata a festeggiare da solo in una pasticceria, ho preso una tazza di caffè e un pezzo di torta e mi sono tolta i cerotti che avevo messo nel mio cuore per sentire di nuovo l’adrenalina di andare in bicicletta. Non era la bicicletta in sé, era guarire il mio cuore da promesse fallite, era per dimostrare a me stessa che se volevo qualcosa nella vita dovevo lottare senza aspettarmi nulla da nessuno. Era per mantenere la mia promessa da bambina che avrei comprato la mia bici da sola. Fin da piccola ho imparato a non illudermi e a non credere alle promesse di nessuno e sapevo anche di essere sola e che dovevo andare avanti da sola. La bicicletta è stata una lezione di vita in tenera età.
Quando sono emigrata, lasciare la mia bicicletta è stato come lasciare una parte di me, perché non la consideravo un oggetto ma un’estensione di me stessa. Sono arrivata all’estero a fine autunno e per l’inverno senza macchina ho comprato una delle biciclette più economiche che mi serviva ad andare e tornare dal lavoro e dovevo maneggiare sotto la neve, del freddo non m’importava perché lo facevo già da bambina. Con quella bicicletta ho scoperto le montagne nella mia riserva forestale che mi accoglieva, la mia gioia non è durata a lungo perché subito dopo mi è stata rubata. Non era un oggetto, era uno dei miei grandi amori. Ho lasciato passare il tempo e ho risparmiato, moneta dopo moneta, dollaro dopo dollaro fino a quando non sono riuscita a comprare la bici dei miei sogni, una che fosse da montagna e da strada, con la quale potessi andare in montagna e per la la strada.
E fino ad oggi è la bicicletta che mi accompagna, ogni primavera faccio manutenzione io stessa, e al minimo avvertimento di squilibrio mi dà la tachicardia, me ne prendo cura come un’estensione del mio corpo, perché io e la mia bicicletta siamo una cosa sola. Perché mi accompagna a percorrere strade lontane, sconosciute, perché fa parte delle mie gioie, delle mie scoperte, del battito del mio cuore. Della mia emancipazione di donna. Molte volte crediamo che sia un libro che emancipa le donne, io dico che la vera emancipatrice è una bicicletta perché ci permette la mobilità, di conoscere luoghi, stare con noi stessi, la scoperta delle mete, il consolidamento della fiducia in noi stessi, nei nostri istinti perché ci dà la libertà di scegliere: oggi voglio intraprendere questa strada, domani voglio smarrirmi e così conosciamo luoghi mentre la pioggia cade sui nostri corpi, la nebbia accarezza i nostri volti o il sole abbraccia le nostre illusioni.
Direi a chiunque, ma più alle donne, che se c’è un sogno di bambina, una ferita emotiva che può essere ripristinata (perché ce ne sono altre che restano con noi per tutta la vita e non hanno cura) comprando quell’oggetto che tanto desideravate negli anni della vostra infanzia, fatelo. Forse non sarà la stessa emozione o lo stesso bisogno di quando eravate bambine, ma aiuterà a guarire le ferite. Ma per questo bisogna desiderarlo con tutte le forze del cuore, so che è difficile quando si è operai e non si hai i mezzi finanziari, ma non importa quanto tempo ci vuole, risparmiate centesimo per centesimo e il giorno in cui comprate quell’oggetto tanto agognato arriverà. Come un risarcimento, come una carezza all’anima e come un modo per dimostrare a noi stesse che sebbene noi donne siano sole, da sole possiamo, nessun altro lo farà per noi, è qualcosa che dobbiamo fare come riparazione storica, con i nostri antenati, con noi stesse e per le generazioni che verranno: il solito passaggio generazionale del nostro genere. La nostra emancipazione che è una lotta quotidiana.
Un altro giorno vi racconterò di come ho realizzato il sogno di acquistare la mia macchina fotografica, un altro impossibile nella mia vita a causa della mia economia ma che ho fatto una priorità. E la domanda che dobbiamo porci è: perché è una priorità?
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Ilka Oliva Corado @ilkaolivacorado