Semitas per calmare l’anima

Tradotto da Monica Manicardi

Parlando con la nonna di Comapa “sapete come sono fatte las semitas?, le chiesi dopo 17 anni di diaspora, cosa che persino io rimasi sorpresa. Com’è possibile, negra mi disse, che non hai mai chiesto a tua nonna la ricetta delle semitas prima d’ora? Mia nonna iniziò a dettarmi gli ingredienti della semitas, del pane di riso, delle quesadillas e delle salporas. Ho tirato fuori un foglio di carta e ho annotato. 

Calcola ad occhio lo zucchero, mi ha detto, prova poco a poco e vedi di aggiungerlo se ce ne bisogno. Tante uova per la stessa quantità di farina, pari alla margarina, l’acqua di cannella e il  latte. C’è chi mette questo e altri altre cose, ma a me piacciono così, puoi farli nel tuo stile.

Mia nonna  mi ha anche  insegnato a fare le tortillas e a interpretare i segnali del fuoco, perché il fuoco avverte. Per esempio: quando sta per arrivare una visita, è inquieto emette fiammate, come quella  volta che sapeva che io  un giorno avrei fatto una visita, mentre sbirciato prima di entrare l’ho trovata che faceva le tortillas  in cucina e mio  nonno immobile, controllando la porta, il suono delle sue mani che sbattevano l’impasto si sentiva fino al negozio della signora Adelona, mi disse quando mi vide attraversare il sentiero di pietra: ingrata, il fuoco per  tutta la mattina mi ha avvisato che stavi arrivando. Non fu sorpreso di vedermi. A quel tempo, per avvisare che uno stava arrivando, si  doveva telefonare all’unica signora che aveva un telefono in città, aspettare che andassero ad avvisarla che aveva una chiamata o tornare a chiamarla alla tal ora  per sapere se l’avevano trovata e potesse  rispondere alla chiamata. Allo stesso modo è stato anche a Peronia, nella mia infanzia. Quando ho avuto il colloquio per il mio primo lavoro come insegnante di Educazione Fisica, ho anche dato il numero di telefono di una  vicina, mi hanno chiamato a quel numero per dirmi che ero assunta, mi hanno lasciato il messaggio che avevano chiamato da quel luogo e che avrebbero richiamato in un tal momento perché avevano bisogno di parlare con me. Oggi, oggi sono altri tempi, che come tutto il resto è  una cosa per un’altra …

Ma quando mia nonna era giovane, non c’erano autobus e dovevano uscire dal paese a cavallo e a piedi. Così portavano quello che riuscivano a prendere, da qui quei grandi pellegrinaggi contadini sui sentieri sull’orlo dei burroni, con i loro carichi di mais, fagioli, i loro carichi di legna, per raggiungere le città per venderli o scambiarli con altri alimenti  di prima necessità. Il famoso baratto. 

Le conversazioni con mia nonna ruotano intorno al suo popolo, da quando erano giovani, perché ho bisogno di coltivare la memoria del cordone ombelicale, la radice, ma anche di conoscerla come donna, oltre ad essere mia nonna. Adoro ascoltarla raccontare la vita di altri tempi, per esempio; nei tempi di Ubico dove  le persone non potevano uccidere le proprie mucche e dovevano chiedere il permesso al governo, così  dice che la gente andava sulle montagne e vi trascorreva tre giorni, ammazzavano l’animale e mettevano  la carne a seccare,  la nascondevano tra le pietre perché gli animali non lo mangiassero e un po’ alla volta  la portavano ai villaggi   perché l’avrebbero saputo  le autorità e portati in  carcere.  

Dopo il tempo della dittatura, i guerriglieri e i soldati continuavano  lo stesso a chiedere cibo, solo  che i guerriglieri bussavano  alla porta e chiedevano per favore e i soldati abbattevano le porte e portavano via  tutto, anche le piume delle galline. E così  lasciavano la città senza i suoi sacchi di grano e fagioli per passare i mesi in cui non c’era raccolto.  Anche i maialini fossero li portavano  via e a  a seconda dell’urgenza li facevano  cucinare  all’istante dalle donne. E forse, racconta mia nonna, quei maialini erano l’unico modo per salvare una famiglia per tutto l’anno per venderlo a natale e poter così comprare scarpe, stoffa per fare i vestiti, ma i soldati li ripulivano. E questo in oriente non è stato così difficile come in occidente. 

Ho conosciuto le amiche d’infanzia di mia nonna e quando una di loro non poteva andare al mulino a fare l’impasto, le altre passavano e prendevano una tela grossa, in vita e in testa, e tornavano dopo poco con l’impasto fatto. Senza dire niente, una comunicazione dell’anima, che esiste solo nei villaggi, nelle generazioni più anziane. E hanno fatto lo stesso con le anfore d’acqua. Non ho mai visto una solidarietà così autentica. 

Quando mia nonna era bambina le acque del fiume Paz erano mari, oggi è un sentiero malnutrito in inverno e d’estate è un deserto di pietre. Come il burrone. Erano boschi di querce, le grandi foreste e si potevano lasciare le porte spalancate che non succedeva niente. Nella sua adolescenza, cominciarono ad apparire dei ladri di bestiame che rubavano i benestanti,  oggi sono le bande criminali che rubano tutto sul loro cammino. La città non è più quella di una volta. Nemmeno il mondo. 

Con le sue  storie ho conosciuto  il caglio della mucca per fare il formaggio, che noi adesso non lo facciamo più. Di come facevano il sapone alle olive per fare il bagno. Quando sento parlare mia nonna, entro  nei personaggi di Juan Rulfo, così come parlano gli anziani di Comapa parlano i personaggi di Rulfo, ma sembra quasi che sia la stessa città, per questo i testi di Rulfo mi stupiscono perché torno più di una volta al mio nativo Comapa, a  parlare con mio nonno, noi due seduti sulla pietra tra i bastoncini di caffè e le palme.

Mia nonna ha una memoria straordinaria e il suo modo di narrare è stato ereditato dalle mie zie, che hanno ereditato da Mamita, sua madre. Sono cresciuta ascoltando le storie di Comapa ogni giorno, mi sono innamorata di Comapa attraverso di loro. Dalle storie di mio nonno, che fra di loro  non ci sono differenze di genere perché  il lavoro degli uomini lo facevano loro, le donne fianco a fianco con mio nonno. Per questa ragione  mio nonno non si stupiva  quando uscivo di fretta perchè mi piaceva il calcio invece del basket o che giocavo al cinque invece che alle bambole. Rideva quando mi guardava tagliare la legna con l’accetta, o quando afferravo il suo machete corto e andava con lui in montagna a tagliare la legna. È stato mio nonno che mi ha insegnato a fare i mattoni. Ma si  divertiva ancora  di più quando mi  guardava per strada mentre combattevo facendo a pugni con i bambini, invece  mia nonna  si avviliva , mi diceva che un giorno mi avrebbero picchiato, al quale   mio nonno rispondeva : se continuano a colpire questo animale, non guardi l’animale che è. 

Perché a Comapa le persone sono animali, da qui l’esistenza di animali rozzi. Animale rozzo, ti avevo detto che non lo era. Animale rozzo te ne sei andato nella direzione sbagliata. Animale rozzo hai portato via  il fuoco ai fagioli. 

Di quelle zie, c’è la zia che è emigrata giovanissima e che non abbiamo potuto condividere con lei, non ci sono ricordi di famiglia insieme a lei . La cerco adesso, nella diaspora, adesso  che sono adulta, per cercare un filo logico  in modo che il ponte continui ad esistere. Così   mia zia mi racconta della sua infanzia a Comapa e della sua vita da adulta nel suo paese di residenza. Zia, le dico, ti  ricordi dell’aroma delle  pacayas e degli  izotes? Ricordi gli acquazzoni del pozzo? Ed entrambi ricostruiamo la Comapa che lei ha lasciato da bambina e che ho conosciuto da adolescente, in brevi visite. E la migrazione ci unisce entrambe,  come sono emigrate le altre mie zie sono emigrate  dal villaggio  alla capitale. Solo che io e mia zia siamo andate più lontano, abbiamo attraversato i confini in modi molto simili. Questo ci unisce ed è un filo molto forte. E la sto conoscendo da adulta, da donna,come migrante e come zia. 

Grazie alla tecnologia  in quest’epoca di video chiamate riesco a vedere mia nonna, le sue espressioni facciali, il colore degli occhi, i suoi zigomi pronunciati che ho ereditato e le sue camicie a maniche lunghe arrotolate fino al anche il gomito, che oltre tutto mi affascinano  e che uso allo stesso modo perché per me fanno parte di quel filo, del tessuto delle viscere  di Mamita, la mia bisnonna. E di Mamita sono le ricette che mi ha dato per fare il pane. 

“Nonna, mostrandole las semitas, guarda come mi le ho fatte”. Ingrata  le hai tolte con il fuoco, devi metterli a fuoco lento, se li cuoci sul fornello, è diverso dal forno a legna, devi metterle e guardarle di tanto in tanto tempo in modo che non ti brucino. Ed è così che ho fatto le mie prime semitas di Comapa, una ricetta che mi ha dato mia nonna, che è di Mamita. Penso che forse nella terza o quarta volta saranno  come quelle di Comapa, per il momento mi sono goduto questo primo tentativo passo dopo passo e farle è stato un viaggio nella mia nativa Comapa, nelle viscere di Mamita e nella nostalgia per le grandi mani di mia nonna.  

Cucinare per me è continuare la tradizione degli antenati. Ci sono ricerche che uno deve fare, con l’urgenza dell’improrogabile, nel caso de las  semitas, non è solo il mais, l’acqua di cannella o il modo di impastare, è una continuazione. E’ ormeggiare e sciogliere nodi. Ed è anche una conversazione con i miei antenati, anche se nei confini del tempo non ci siamo conosciute, è riconoscermi in loro attraverso la cucina. E da parte mia farò in modo che le ricette di Mamita sopravvivano alla mia morte, sarà l’eredità affinché un giorno nei confini del tempo chi vuole entrare alla ricerca dell’urgenza possa anche trovarle e berle come una pozione che calma l’anima e lo spirito. Per dare continuità a questo filo ancestrale.

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Ilka Oliva Corado @ilkaolivacorado

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