Un paese morto

Tradotto da Monica Manicardi

Dovremmo avere un minimo di vergogna, dato che non abbiamo coraggio. Un minimo di indignazione che ci porti fuori dalla reti sociali che tollerano tutto e prendere le strade che sono i testimoni della storia del paese. Galana è un comfort di una rete sociale, ma è solo truccata, una facciata, chiacchiere, discorsi; lì, non si realizzano i cambiamenti  alla radice e Guatemala è un paese marcio. La responsabilità è della stessa società meticcia e urbana, incapace di unirsi ai popoli nativi nella loro enorme dignità e forza di lotta, che hanno il coraggio di presentarsi dove è necessario, in qualsiasi giorno,  lottando costantemente per riuscire a riscattare il paese dalle mani di bande criminali che hanno preso il paese dal post dittatura.

Un declino, questo è stato il Guatemala  dopo la dittatura. E la società passiva e insensibile è la valanga che ha leso tutta la speranza per la ricostruzione non solo del tessuto sociale, ma delle strutture governative che sono servite nel frattempo come l’enorme tentacolo con il quale queste mafie adoperano non solo il denaro, ma anche le risorse materiali per negare ogni opportunità di sviluppo ad un popolo in ginocchio davanti alla paura. Ma più che la paura è l’indifferenza. L’indifferenza è più potente della paura. La paura fa reagire sul momento, l’indifferenza devasta.

Ci siamo abituati all’orrore in tempi di democrazia, una democrazia mascherata, naturalmente, perché Guatemala vive una versione rinnovata della dittatura dei decenni passati. Con la differenza che prima la gente reagiva, ma oggi le energie si impiegano solo nelle reti sociali, perché il coraggio per fare una fermata generale indeterminata lo hanno soltanto i popoli nativi: quelli più colpiti, quelli umiliati da sempre, dal governo di turno e dalla società meticcia razzista e classista, la stessa che si pavoneggia dignitosa nella rete sociale e nelle sue infinite etichette. Ma che dista anni luce nell’avvicinarsi minimamente alla grandezza umana dei popoli nativi.

L’orrore come meccanismo di imposizione governativo finora non ci ha toccato le corde più profonde e non credo che abbiamo la verità, così come non abbiamo il coraggio, non abbiamo nessun rispetto per l’infanzia e ancor meno amore. Senza rispetto e senza amore non ci interessa quello che succede all’infanzia, a meno che non siano i nostri figli. Non ci importa niente quello che succede agli adolescenti, a meno che non siano della nostra famiglia. Che violentino o ammazzino le donne che vogliono, a meno che non siano all’interno del nostro cerchio familiare. Poverini, non superano la pena che ci danno e questa pena con una indignazione per metà a malapena solo ci permette uno slogan da reti sociali. Perché il punto è non dire nemmeno niente.

L’orrore non dovrebbe essere una violenza e un omicidio di una bambina. Il femminicidio di decine di donne. L’orrore in una società cosciente, con un po’ di buonsenso e un minimo di dignità dovrebbe essere che i  parchi  non siano irrigati per almeno tre volte alla settimana. Questo dovrebbe essere l’orrore, questi dovrebbero essere i limiti. Ma a partire dal perché non abbiamo parchi, ci hanno negato il diritto allo svago all’aria aperta in zone adeguate per alimentare lo sviluppo integrale all’infanzia. Ci hanno negato il diritto al sistema sanitario, al sistema educativo, all’alimentazione, allo svago, ci hanno negato il diritto alla libertà di mobilità e  stanno per negarci la libertà di pensiero. Abbiamo oltrepassato ogni limite che dovevano indignarci sul momento. I fiumi li hanno prosciugati, i grandi boschi li hanno disboscati, oggi ci parlano di ecocidi ed estraggono dalle miniere i minerali portandoli in altri paesi. Questo inizio doveva essere l’orrore e da lì dovevamo reagire. Ma siccome  lì vivevano le comunità indigene e non noi, ebbene hanno fatto quello che volevano e che noi fossimo felici con i centri commerciali. Abbiamo permesso che i criminali dai loro privilegi oligarchi telecomandati utilizzino lo Stato per umiliarci.

Sono venuti a misurarci la quantità di acqua,  quanto abbiamo di pressione, quanti siamo capaci di indignarci. Siamo serviti da esperimento tutti questi anni. Siccome il razzismo e il classismo, la pigrizia e la insensibilità sono superiori a qualsiasi pensiero di unità e di coraggio, allora ci sballottano in lungo e in largo. Non sono nemmeno entrati nelle nostre case sfondando le porte, come nei decenni passati durante la dittatura,  oggi noi la lasciamo aperta perché possano entrare, prendersi quello che vogliono e fare di noi quello che vogliono, perché abbiamo perso ogni capacità di reagire. Siamo un paese morto.

Ma c’è qualcosa in più, l’orrore è appena cominciato, continuiamo passivi, indifferenti, parliamo a vanvera nelle reti sociali. Guatemala ha bisogno veramente di coraggio e questo lo possono avere solo i popoli nativi. Quelli che hanno sempre messo la faccia e hanno lottato con la testa alta, nei secoli. Il resto è nulla, per quanto possano contare i diplomi universitari appesi alle pareti o come va di moda, mostrati in rete. Siamo purtroppo, la società meticcia delle grandi rivoluzioni nelle reti sociali, come dire:  un semplice trambusto di carnevale.

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Ilka Oliva Corado @ilkaolivacorado

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