Come un enorme elefante bianco

Tradotto da Monica Manicardi

Appare in televisione da diverse settimane, ma faccio la finta tonta e cerco film altrove, è un documentario sulla violenza che hanno vissuto le comunità indigene in Guatemala nel periodo della dittatura. Com’è facile cambiare canale o fingere che una immagine non sia su uno schermo di un televisore. Più di 200 mila scomparsi, è scritto in lettere cubitali, ma io non lo voglio vedere, non adesso che mi sto rilassando guardando documentari sulla cultura, di gastronomia e qualsiasi altra cosa tranne che su ciò che fa male.  Com’è facile, insisto,  poter cambiare canale e fingere che questa immagine non esiste, almeno momentaneamente.

Dire, oggi non voglio vedere una cosa simile, poter scegliere. Ma queste migliaia di famiglie che hanno vissuto la violenza da parte dello Stato in  Guatemala non hanno avuto nessuna alternativa, sono state massacrate, torturate, scomparse. Quanti furono realmente? Ufficialmente forse 200 mila, ma quanti sono stati? Quante bambine, adolescenti e donne hanno violentato? Quante sono rimaste incinte da queste violenze?  Che ne è stato di loro? Cosa è successo a queste famiglie che  sono andate in esilio, fuggendo? Hanno lasciato tutto per strada, molte hanno lasciato i figli, coniugi, genitori, fratelli scomparsi, assassinati. Molte non sono riuscite a tornare e queste persone sono morte in esilio, non solamente lontane dalla loro terra, ma anche dalla giustizia, una giustizia che ancora non arriva.

200 mila, in lettere cubitali ed io cambio canale. Come sono riusciti a sopravvivere tutti questi anni? Mi riferisco al dolore, allo stigma, alla perdita, con il delirio,  con la voglia di urlare in una società razzista, classista e pigra che si rifiuta di pronunciare la parola genocidio e ancora meno a riconoscerlo. A riconoscere che in Guatemala ci sono stati crimini  contro umanità. Ed il tempo passa e la memoria storica si impolvera ogni giorno di più, abbandonata, solitaria, derubata nel dimenticatoio collettivo. Perché ci  ostiniamo a parlare del presente senza osare a pronunciare i nomi degli scomparsi, senza parlare di giustizia, senza leggere la storia, senza restituire ciò che è stato rubato. Sì, senza fare niente  come società  che ciò che hanno rubato lo restituiscano quello  che  hanno tolto alle tante comunità che fino ad oggi continuano a fare pellegrinaggi perché sradicati dalle loro terre. Terre che oggi hanno grandi franchigie della frode in collusione con uno Stato oppressivo, con la stessa tirannia di sempre.

Come è stata la vita di quei giovani che ora sono  nonni, le vicende emotive che hanno trasmesso alle generazioni di figli e nipoti. E’ facile dimenticare ciò che ci mette in discussione e ci mette davanti la società, facile quanto cambiare canale alla televisione. Fingere è la cosa più comune, fingere che non sia successo niente, che altri siano  i colpevoli e che la cosa migliore  sarà voltare pagina. E i bambini che lo Stato ha fatto sparire ai tempi della dittatura? Come hanno vissuto tutti questi anni di sangue con le  loro famiglie? L’assenza, il vuoto, la ricerca, la frustrazione, il dolore, l’insistenza o la rassegnazione. 200 mila, per dire un numero, e le fosse clandestine? Quelli che oggi hanno 40 anni che vivono in qualche parte del mondo con un cognome diverso, in altre famiglie, avranno  incubi o gli parla l’inconscio riguardo al passato in un altro posto, con altre persone?  E i genitori che hanno perso i loro figli, come hanno vissuto in tutti questi anni? Quelli che sono sopravvissuti alle torture? 200 mila, e cambio canale.

E la giustizia assente e la impunità perversa. Arretriamo in ogni elezione presidenziale, abbiamo scommesso sempre sul più ignobile perché ci rappresenta alla lettera, al più maschilista, al più razzista, al più classista, al più presuntuoso, al più imbroglione e lo applaudiamo perché è lo specchio dove noi ci riflettiamo. Perché a noi non importa quello che hanno passato gli altri, quello che vivono gli altri: gli oltraggiati, i poveri, gli esclusi che obblighiamo ad emigrare. 200 mila 40 anni fa vediamo che oggigiorno, gruppi armati che sono inviati dall’oligarchia rubano le terre di intere popolazioni, entrano nelle comunità e bruciano le loro case, i loro raccolti e li prelevano dalle loro terre come ai tempi della precedente dittatura e noi osserviamo ma la schiviamo. E’ meglio cambiare canale, pagina, rete sociale. Perché è meglio fingere, non vedere, non sapere, che fare qualcosa al riguardo.

Per questo affondiamo ogni giorno di più il Guatemala, perché con la nostra inerzia e smemoratezza permettiamo che gli infami possano   fare e disfare con chi è più vulnerabile. Possiamo cambiare canale, non vedere documentari, non leggere libri che raccontano le testimonianze o vederli, leggerli e cambiare pagina, ignorare i sopravvissuti anche se vivono nella casa accanto o puliscono la nostra casa, chiuderci nella nostra piccola e misera bolla di sapone nelle nostre comodità ma non si elimina la realtà, nemmeno il passato; stiamo camminando sulle ossa dei massacrati nelle innumerevoli fosse clandestine che ci sono in tutto il paese. E queste ossa parlano, sono la memoria storica che anche se ci rifiutiamo di nascondere, è lì come un enorme elefante bianco.

E con nostro estremo dispiacere, la nostra pigrizia, ogni tanto ci sono incontri  tra famigliari che la dittatura ha separato, molti  quando erano appena dei bambini.  Ogni abbraccio tra fratelli, tra genitori e figli, tra nonni e nipoti da 40 anni senza vedersi, pensando di essere morti, è un trionfo alla vita dinanzi alla repressione, dinanzi alla giustizia e la smemoratezza collettiva. Ogni incontro è un pulsante della speranza che ci dice che non importa che per quanto potente sia l’impunità, l’onore della vita germoglierà sempre.

Così ce lo ha dimostrato il recente ricongiungimento tra le sorelle Teresa Pérez Ramon e Teresa Pérez Rodrìguez che dopo 38 anni di separazione si sono riviste. La signora Teresa Pérez Rodrìguez  scomparve durante la dittatura quando aveva appena 9 anni.  L’incontro è avvenuto nel dipartimento di Quiché, nel municipio di Chajul il 5 di agosto del 2020. Il dipartimento di Quiché è stato quello più colpito dallo Stato ai tempi della dittatura, la maggior parte  della sua popolazione è indigena. Questo raggiungimento dovrebbe far saltare di felicità l’intero Guatemala.

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Ilka Oliva Corado @ilkaolivacorado

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