Le venditrici del villaggio

Tradotto da Monica Manicardi

Sempre mi tornano alla mente quando i fiori alle dieci del mattino cominciano ad aprire i loro petali nelle mattinate tiepide dell’estate. E con la brezza tenue dei giorni di un sole soffocante, appaiono i getti d’acqua bagnando il patio polveroso di quella casetta che è stato il nido che ha protetto la mia infanzia. E l’odore di terra bagnata arriva fino alla finestra della mia stanza, qui in questa terra lontana dove oggi coltivo aglio, semi di pomodori e sistemo i rami rampicanti della menta che si estendono con garbo tra i fiori di chiligua, i cocci dei vasi e il mio piccolo terreno  nel mio paese preso in affitto.

Appaiono fra la nebbia fine degli ultimi minuti della rugiada dell’alba, quando il calore comincia ad emergere per lasciare il posto a mezzogiorno. Le vedo scendere dalla strada principale del villaggio con i loro sandali pieni di polvere dal tanto camminare, con i loro cesti sulla testa pieno di erbe, verdure e fiori. Con formaggio, crema e uova di anatra, polli e galline. Sono bambine e adolescenti che si danno da fare durante il giorno tra accudire gli animali, macinare il mais con la pietra, fare le tortillas, lavare gli indumenti, prendersi cura delle sementi, studiare (alcune) e scendere a Ciudad Peronia, la colonia vicina di recente creata per vendere il raccolto.

L’immagine appare in una sequenza temporale, con l’armonia dei loro passi che equilibra, i loro corpi che caricano le enormi ceste colorate di bianco dai fiori di izotes, zucchine e il frutto perulero. Con rametti pasquali, velo da sposa, dalie e crisantemi. Nespole, limoni freschi appena tagliati e guayabas rosse, disposti con cura.

Le lattughe che si seminano nei terreni che confinano con la grande casa del secondo stagno, che sembra una casa padronale di un’enorme proprietà, sporgono tra le altre. Con il negozio in centro, l’espositore grande pieno di vassoi di pane, dolci con zucchero di canna con sesamo posizionati nelle foglie di mais. E il frigorifero all’entrata con l’acqua fredda e buste fresche di tamarindo e frutta nance. I sacchetti di ciambelle e rosette di mais, le meringhe in piccole ceste di vimini e le trecce di aglio attaccata dietro la porta insieme ad un ferro di cavallo e tanti talismani contro le energie negative.

Come piccole condutture l’acqua scorre tra i solchi dei fiori e delle verdure, le carote grandi e il coriandolo che sparge il suo aroma fino al villaggio di Calvario e Sorsoyà. Le ragazze le aspettano sempre come la pioggia di maggio a Peronia, (una colonia che non ha ancora il suo carattere la sua personalità ben formate, ma lo avrà con gli anni, a causa della diversità  dell’origine del suo popolo), è sufficiente che camminino due o tre quadre perché vendano il contenuto dei loro cesti. Dopo scendono al mercato per comprare sale, zucchero, cannella, olio, candele, gas, pezzi di stoffa, le cose che non possono produrre nel villaggio.

Non offrono, non toccano le porte delle case, solo camminano in mezzo alla strada con i loro cesti, con le schiene erette i loro yagual, con i loro grandi grembiuli. Ben curate, i loro capelli sono raccolti in trecce, i loro vestiti fatti dalle donne di famiglia, parlano poco, lo stretto necessario per la vendita. Questo è sufficiente affinché ci sia confusione nelle quadre ed esca il vicinato a comprare quello che in un attimo finisce. E la gente rimane con la voglia di vederle ritornare con i loro cesti pieni di bellezza e profumi del villaggio che nei miei anni d’infanzia è stato l’orizzonte che ha dato la libertà alle mie ali di cicala.

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Ilka Oliva Corado @ilkaolivacorado

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