I miei dipinti sono i miei tentativi

Tradotto da Monica Manicardi

Questa mattina mi sono seduta di fronte alla tela e l’ho fissata, sembrava un foglio bianco, immenso, immenso, immenso. Sono arrivata tardi alla pittura, me lo sono detta molte volte quando voglio   disegnare qualcosa e non ci riesco, o quando mi immagino il dipinto in un modo e finisco in un altro modo, meno vitale, meno delicata e al contrario è grezza e con una tecnica mediocre, di  chi ignora totalmente i lineamenti dell’arte della pittura e ovviamente non le domina. Ma mi piacciono le sue linee ruvide, le pennellate grezze e senza senso. Allora respiro contenta e dico, no, non sono arrivata tardi da  nessuna parte.

Anche se la pittura è arrivata nella mia vita molto prima della scrittura e della fotografia, è stata la prima che ho bloccato, dopo che  la scrittura e la fotografia sono rimaste irraggiungibili perché nel  sobborgo dove vivevo non si poteva avere soldi per una macchina fotografica. Causa del  patriarcato, della povertà e  del sovraccarico del lavoro e degli obblighi domestici che abbiamo noi donne dei sobborghi e se si parla di tempo libero  è un sacrilegio. Senza contare le ore che si perdono nel trasportare acqua, infatti si sa che nei bassifondi l’acqua potabile arriva due volte alla settimana e solo alcune ore durante il giorno. Ci sono voluti degli anni per rendermi conto che anche  noi donne abbiamo  il diritto al tempo libero e a mangiare sedute. Solo qualche anno fa io mangiavo in piedi, con il piatto in mano, di corsa, quasi soffocando, non avevo il coraggio di sedermi, perché è così  che sono cresciuta lavorando in casa, studiando, senza nemmeno avere il tempo per sedermi a mangiare, perché sedersi era visto come pigrizia.

Fino a quando un giorno ho detto basta e mi sono seduta, imbarazzata perché non era da me, non sentivo il sapore del cibo, masticavo piano, ma questo esercizio l’ho ripetuto nei giorni seguenti ripetendomi ad alta voce: ho il diritto di sedermi per mangiare. Fino a quando sono riuscita a sedermi e a mangiare senza sentirmi in colpa. La colpa l’ho anche sentita il giorno che mi sono seduta per leggere un libro nel cortile dove vivo, sentendo l’aria fresca della primavera, ho sentito che stavo perdendo tempo e dovevo trovare un lavoro extra, per prendermi cura di me. Il lavoro era la nostra vita quotidiana, conoscevamo solo il lavoro, tutte le altre cose significavano una perdita di tempo e di denaro, denaro che serviva per pagare le rette della scuola, comprare il cibo, materiale scolastico, la crusca e il mais per i maiali, le capre e le galline.

Mi sono seduta e ho cominciato a leggere, ho messo tutta la mia attenzione sul libro, ma sono riuscita a leggere solo un paragrafo senza avere rimorsi di coscienza per avere tempo libero per leggere. E mi ripetevo ancora, una volta e ancora un’altra: ho il diritto ad avere il tempo libero, ho diritto ad avere il tempo libero per leggere. Col passare del tempo ho accettato che il tempo per oziare è un diritto.

Per otto anni ho risparmiato per comprarmi una macchina fotografica, fino a quando un giorno ho preso quello che avevo e sono andata a cercarla, non sapevo quale comprare, volevo solo una macchina per uscire e scattare foto, per raggiungere i picchi che colpivano la cima degli aceri nella mia riserva forestale in affitto. Per catturare il ballo delle anatre  nel fiume, le foglie ocra dell’autunno, la nebbia di aprile e i petali gialli dei girasoli di agosto. Quello che è stato impossibile realizzare nella mia infanzia, finalmente sono riuscita ad ottenerlo nella vita adulta. Anche la fotografia è un mio grande amore. Questa macchina fotografica è il mio grande talismano, come lo è la bicicletta e il mio computer. E’ un percorso nella galassia e dall’altra apro una finestra sul mondo.

Quel giorno d’estate presi la mia tela e mi sono seduta di fronte a lei, la vedevo immensa, immensa, immensa, volevo dipingerla con la spatola, ma non sapevo nemmeno come fare, se c’era una tecnica per afferrarla e far scivolare il colore, comunque era venuto in tempi remoti don Nayo, un muratore nato a El Asintal che ha costruito le pareti della recensione del cortile della nostra casa a Ciudad Peronia, e che mi ha dato un lavoro da assistente. Si era seduto accanto a me, con il suo cappello consumato, pieno di calce, con i suoi vestiti sciupati dal sole e dal lavoro, e con le sue mani screpolate, afferrò la spatola e mi disse: è facile, è come afferrare il cucchiaio e la spatola e intonachi. Fai finta di riparare la recinzione del cortile di casa tua. E ho cominciato a ridere,  tanto da piangere, ricordando don Nayo e di come mi ha insegnato il lavoro di muratura. Mi ha insegnato come mescolare, a fare le colonne di ferro, a livellare, a scavare, ad attaccare i mattoni, a tagliare, a intonacare, a setacciare.

L’eclissi in cui si oscurò tutto, negli anni novanta, persino i galli cantavano e le galline se ne andarono nel loro giaciglio, ci ha fatto attaccare i mattoni dal lato della recinzione della signora Marta.

Presi i colori e la spatola e cominciai a dipingere la tela e mentre la  coloravo si faceva più piccola, e presi la spatola allo stesso modo in cui prendevo il cucchiaio per intonacare, come facevo negli anni della mia infanzia, nel mio grande amore.

In fondo, i miei dipinti sono le mie tecniche,  i mie tentativi, gli istanti di felicità che con la loro intensità esprimono molto bene i colori e il volteggio dei  mie scarabocchi. Ogni pennellata, ogni colore, sono io, ripetendomi  che ho il diritto  di oziare, ad esprimermi, ma soprattutto ad essere me stessa.

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Ilka Oliva Corado @ilkaolivacorado

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