Un matrimonio di lusso, con camerieri

Tradotto da Monica Manicardi

E’ uno di questi matrimoni tanto comuni tra latinoamericani indocumentati  negli Stati Uniti: pieno di sconosciuti, senza badare a spese, con il soli prestati e tutto il resto per inviare il video e le foto ai familiari nel loro paese d’origine e; dimostrare che hanno avuto successo, che hanno raggiunto il sogno americano, che possono permettersi il lusso di pagare una bella sala e una ristorazione con i camerieri; anche se loro lavorano pulendo i bagni, miscelando il cemento, tagliando erba o la tapioca nei campi di coltivazione dei grandi impresari che non proprio per lo più sono  anglosassoni. Perché chi  sfrutta non ha colore, né religione, non ha nazionalità né ideologia; può  essere chiunque  abbia il potere per farlo dalla sua posizione di privilegio prima degli altri.

Sono matrimoni  guatemaltechi, non  suonano la marimba perché dicono che sono meticci dell’oriente perciò suonano musica messicana del nord, ce ne sono altri che suonano la marimba pochi minuti perché dicono che sono guatemaltechi fino alla morte e che la marimba li identifica, (e non mettono la Luna de Xelajù perché non  conoscono tutto il resto) ma l’indigeno viene visto come  letame al quale non c’è bisogno di fare del male perché prima di tutto sono razzisti. Perché se in Guatemala il meticcio tratta male l’indigeno, all’estero il trattamento è elevato al quadrato. E’ più facile che un guatemalteco meticcio chiami gli sbirri per denunciare e chiedere la deportazione di un indigeno che lo faccia un gringo.

Le parole vanno e vengono, dedica di qua, ringraziamenti di là, lodi al vento e lacrime di emozioni e ipocrisia: tutti sorridono per la foto. Il matrimonio si sta trasmettendo dal vivo nelle reti sociali, nel popolo da dove provengono gli sposi si sono riuniti e per mezzo di un computer riescono a vedere i futuri sposi e gli invitati, saziandosi a due mani di cibo  che servono i camerieri. Mentre alcuni ballano altri brindano, il liquore è gratis allora approfittano per riempirsi la bocca  fino a buttarlo fuori, non importa. Non importa nemmeno chi sono gli sposi, è sabato sera ed è estate, con il mangiare e il bere gratis.

Esco a prendere un po’ d’aria con il pretesto di andare al bagno, l’ambiente è pesante. Nella struttura ci sono quattro saloni e in tutti si stanno realizzando altri matrimoni, i bagni sono fuori alla fine del corridoio, mi dirigo in questa direzione ma noto che si sta festeggiando un matrimonio di palestinesi ed è celebrato separatamente, in un salone ci sono gli uomini e nell’altro le donne, tutti sono vestiti eleganti con il loro abiti tradizionali. La loro è un’eleganza affascinante, una bellezza incantevole. Mi trattengo ad osservare i vestiti, i minimi dettagli di cucitura e delle decorazioni, i corpi scultorei delle donne e la finezza degli uomini che hanno tutti il kefjah  palestinese.

Palestina, tutto riporta alla Palestina nell’abbigliamento, nell’aspetto, come parlano, nei loro gesti, nell’orgoglio con il quale portano il loro kefjah. Palestina, lo dico dentro me, ricordando il genocidio che stanno vivendo e all’improvviso dal profondo dell’anima una  forza proveniente dalle viscere mi fa stringere la mano ed alzare il braccio per gridare, Viva  Palestina libera!, alla quale loro risposero tutti insieme in un grido e con la mano chiusa in alto: Viva!, e immediatamente le loro lacrime e le mie scivolarono sui nostri visi, ci siamo tutti abbracciati. Ed è stato un abbraccio senza frontiere, senza differenze di culture, senza che alcuni fossero rifugiati, residenti, cittadini statunitensi di origine palestinese o indocumentati. Senza differenza di colore, senza differenza dell’idioma, è stato un abbraccio di sete di giustizia, di memoria, di solidarietà, di fratellanza. Un abbraccio doloroso ma anche amato.

E’ stato solo un istante e dopo ci siamo tutti asciugati le lacrime, abbiamo sorriso e ci siamo salutati, loro hanno continuato in attesa  di partecipare alla festa, ogni genere nel suo salone ed io ho continuato verso i bagni, dove mi sono incontrata in un altro mondo, nel mondo degli autoritratti con il telefono cellulare e quello delle pose infinite di apparente felicità; di donne che mettendo in mostra la loro acconciatura, tacchi,  dieta, vestiti e trucchi, tutto da pubblicare nelle reti sociali. Non mi sono meravigliata minimamente che la maggior parte fossero guatemaltechi che erano nello stesso matrimonio alla quale partecipavo.

Mi sono avvicinata allo specchio, ho sistemato il mio turbante e sono tornata alla festa, non più così vuota, non più priva di significato, non più con l’animo inasprito, ho bevuto un bicchiere di vino ed ho brindato, sola, tra me e me, per la libertà della Palestina, seduta su una sedia  ad un tavolo dove gli invitati  criticavano le scarpe di tizio, il vestito di caio ed altri sorteggiavano chi avrebbe portato via la bottiglia di whisky che stava al centro del tavolo insieme alle decorazioni. Tutto questo mentre gli sposi si baciavano, altri invitati ballavano la musica messicana del nord ed i famigliari li vedevano a migliaia di chilometri in un villaggio  sperduto dell’oriente guatemalteco, piangendo per  la lontananza e piangendo per l’orgoglio che loro avevano raggiunto il tanto acclamato sogno americano, che si poteva vedere in un matrimonio di lusso, con i camerieri.

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Ilka Oliva Corado @ilkaolivacorado

 

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