Paria

Tradotto da Monica Monicardi

Ricordo che da bambina dopo aver venduto gelati al mercato nel fine settimana, ritornavo a casa puntualmente alle due del pomeriggio, (fra la settimana alle 12,30 perché all’una andavo a studiare) e andavo per  strada con i miei amici,  ciascuno con  dei sacchi in mano, a raccogliere l’immondizia di casa in casa  per buttarla nel burrone, ci pagavano 25 centesimi per sacco.

Con il frigo portatile sulla spalla correvo dietro agli autobus supplicando alle guide che mi lasciassero salire, per vendere i mie gelati, con un salto salivo e scendevo perché non fermavano mai   l’autobus completamente.

Correvamo a nasconderci dal cassiere del mercato perché tutti i giorni voleva buttarci via i gelati nella spazzatura intralciandoci il passaggio.

Ci riunivamo alle 3 della mattina all’angolo della cantina Las Galaxias, per prendere la strada verso La Fresera, una azienda agricola che rimaneva  sulle sponde del villaggio Zorzoyà, in San Lucas Sacatepéquez, camminavamo 20 chilometri all’andata e 20 per il ritorno, tra le montagne verde bottiglia. Là eravamo lavoratori a giornata e lavoravamo dall’alba al tramonto nel raccogliere le fragole. Io allora avevo 8 anni.

Un giorno mia madre disse che era una buona idea andare a vendere pupusas (specie di pane), gelati e atoles e così lo facemmo. Mio padre e mia madre con il loro frigo ciascuno e noi due figlie maggiori con la nostra, facevamo credito  per riscuotere a fine mese. Quelle piante e quei boschi, furono testimoni della nostra fatica fisica della nostra illusione.

Quando arrivava la fine del mese io non avevo i soldi per pagare le tasse scolastiche, nel supermercato all’angolo del boulevard centrale e la strada Eufrates, chiedevo un credito per un doppio litro di Coca Cola, mentre esponevo il gelato nel mercato, facevo piccoli fogli con dei numeri e andavo da un posto all’altro a offrire ai commercianti i numeri per la lotteria di un doppio litro di gassosa; a volte per dieci  centavos e a volte per venticinque. Spendevo  2.50 Queztal e me ne restavano Q2.50 e quando avevo fortuna Q5.00.

Per Natale  facevo decorazioni natalizie, con la pellicola trasparente, tessuti in canapa e crêpe, chiedevo credito a Juan, un altro venditore del mercato. Lo facevo di notte dopo aver finito i mestieri di casa, li portavo alla mattina seguente per venderli al mercato, a cinquanta centavos, un queztal, così accumulavo denaro per la mia iscrizione, l’uniforme, per le scarpe e ciò che era utile. Copiavo i disegni che vedevo in televisione nell’annunciare il Natale.

Nel pomeriggio al limite dell’imbrunire andavamo a vendere pupusa de chicharròn e atol, al distaccamento militare, camminavamo per cinque chilometri all’andata e cinque per il ritorno. Più di una volta ho lavorato come aiutante muratore e come aiutante calzolaio.

Quando mio padre guidava gli autobus e non aveva l’aiutante,  prendeva me, io ero la cassiera. E mi attaccavo alla porta dell’autobus dondolandomi e gridando Terrazas, Ciudad Peronia, La Fuente! Questa fu la mia adolescenza.

Quando studiavo per  maestra, alle cinque della mattina chiedevo in prestito cinque quetzales, alle mie zie  o alle mie vicine, per il passaggio e per comperare delle arance al mercato La Placita, nell’ora della ricreazione le vendevo sbucciate con i semi e il sale, alle 9 di sera andavo a restituire i soldi che mi avevano prestato al mattino.

La mia infanzia e la mia adolescenza l’ho passata con un pantalone e una camicia  ed un paio di scarpe. Venni a conoscenza  dei reggiseni fino a quando non si sviluppò il mio seno. Degli assorbenti fino a quando non ebbi soldi per comprarli. Il deodorante e il dentifricio erano un lusso che potevo permettermi  due volte all’anno. Usavamo limone al posto del deodorante e sale e cenere per spazzolarci i denti.

Dormivamo noi quattro in un letto di metallo con un solo piede,  un poncio di Totonicapàn, e un lenzuolo di Tierra Fria che ci coprivamo  dall’umidità del mattino che sgocciolava dalla lamina. Un pezzo di tela, come un cancello ci separava dalla stanza dei mie genitori, dalla sala e dalla cucina che erano un’unica cosa in quella casa della mia infanzia.

Le finestre erano di cartone, casse che ci regalavano al mercato, quando non li usavano i venditori dove  mettevano sopra alcuni sacchi le loro vendite, sul suolo. Il pavimento di talpetate dove camminavano galline, capre, anatre, cani e a volte i maiali.

Quando emigrai, il primo giorno di lavoro caddi dai gradini della cantina di una dimora  di ebrei, mi aggrovigliai con il filo elettrico dell’aspirapolvere, nella mia vita avevo visto una cosa come questa, mi  trovai sdraiata per terra, bagnata dal cloro; il barattolo che avevo in mano si svitò dalla caduta e mi macchiò la roba, che con grandi sacrifici avevamo comprato in un negozio di roba usata, perché negli Stati Uniti  arrivai senza niente. Ero lì distesa alla fine dei gradini coperti di tappeti, circondata da gente che vedevo confusa e che mi parlava ed io non capivo quello che mi dicevano, non sapevo nemmeno come si saluta in inglese e ancora meno lo parlavo. Così è stato il mio benvenuto al lavoro del servizio a domicilio.

Io non dimentico le tante volte che il cassiere del mercato ci inseguiva, per buttarci via i gelati. Nemmeno le innumerevoli occasioni  quando correvo dietro agli autobus e le tante che mi sono capitate per guadagnarmi il sostentamento. Non dimentico le tante volte che mi hanno discriminata, per essere negra,  per essere paria, per essere una popolana, per essere venditrice al mercato. Non dimentico l’odore della spazzatura che portavo sulle mie  spalle da piccola gettandola nel dirupo. Ne’ le tante volte che abbiamo dominato la fatica in mezzo alla montagna in cammino verso La Fresera. Ne’ gli insulti del caposquadra, ne’ lo sfruttamento lavorativo da parte del padrone del podere. Non dimentico le tante volte che non ci pagò per come doveva pagarci.

Non dimentico i pomeriggi in marcia al distaccamento, fra gli ortaggi e il muschio bianco dei cipressi, il dolore alla schiena per il peso  del atol, delle banane fritte, delle pupusas di ciccioli, i chocobananos ed i gelati.

Non dimentico le volte in cui ho chiesto credito per mangiare, ne’ le volte che ho toccato la porta altrui per chiedere un prestito per andare a studiare.

Non dimentico la frustrazione,la stanchezza, il dolore, la rabbia, l’amarezza, la miseria, la esclusione che io ho vissuto.

Non dimentico i sogni infranti, le porte chiuse sul naso, non dimentico le tante volte che mi gridavano  sporca negra, per il mio colore della pelle. Nemmeno le tante volte che l’acqua  dell’inverno entrò nella suola delle mie scarpe. Ne’ i calzini rammendati, ne’ la pancia che strillava per la fame, nostra scarsità. Non lo dimentico.

Come non dimentico i paria come me i quali comprarono i numeri della lotteria del doppio litro di Coca Cola, ne’ hai venditori  del supermercato che mi fecero credito. Ne’ ai venditori del mercato che nascondevano il frigo quando il cassiere ci cercava. Ne’ ai soldati semplici che ci compravano la nostra merce  al distaccamento e ci accompagnavano di notte per prenderci cura di noi affinché non ci succedesse niente.

Io non dimentico, da dove vengo, io non dimentico di cosa sono fatta. Perché allora dovrei negare che sono paria?  Perché dovrei negare la mia memoria? Dimenticare quei paria come me che mi hanno aiutato affinché io studiassi e frequentassi il corridoio del mercato? Alle guide degli autobus che mi hanno fatto salire e vendere i miei gelati. Ai lavoratori a giornata de la Fresera che compravano quello che portavamo a vendere. Perché adesso dovrei vantarmi di essere una scrittrice e una poetessa? Perché adesso dovrei dimenticare quelli che mi mi vedevano quando ero completamente invisibile per la società?

Perché adesso spudoratamente potrei etichettarmi per ciò che non mi corrisponde? Per il nome di altri? Per la luce di altri? Nella invisibilità della miseria e della esclusione, c’è anche vita, sogni, lotte, solidarietà.  Ed è lì dove io appartengo.

E quando dico paria, ribadisco la mia eredità millenaria, la mia memoria, la mia identità. Ribadisco  che sono la venditrice del mercato. Perché dovrei  negare la dignità degli esclusi di tutti i tempi? A loro la mia lettera, la mia vita e  la mia poesia. Il resto sono stronzate.

In un altro viaggio, racconterò perché non sono rossa, rivoluzionaria o femminista.

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Ilka Oliva Corado. @ilkaolivacorado contacto@cronicasdeunainquilina.wordpress.com

Un comentario

  1. Hermoso leerlo en italiano! El apellido tira…

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