Pedigree

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Hoy en la madrugada me levanté como siempre, a escribir; encendí mi teléfono celular en lo que preparaba el café, me encontré con un correo electrónico de Alessandra Riccio, desde Italia, donde enviaba la traducción al italiano de mi relato «Sin pedigrí,» que publicó en su bitácora Nostramerica.  No puedo con tanto afecto y con tanta delicadeza, esa manera de estar, no puedo con el abrazo de quienes traducen mis textos, desde distintos lugares del planeta, es demasiado para mí. Hace 14 años para estas fechas comencé a despedirme de Guatemala porque a finales de octubre emigraría, sin destino, como hoja seca, segura de morir en la frontera.

Nunca, ni en mis sueños más dulces imaginé terminar escribiendo y mucho menos que mis textos serías traducidos a otros idiomas y que viajarían por los cinco continentes. Es algo con lo que tampoco puedo, me sobrepasa.  Es demasiado para  el corazón de  la niña heladera y para sus anhelos de paria. Sin lugar a dudas, Mamita tenía razón, soy una niña que nació con suerte.

Les dejo con el texto traducido por Alessandra.

Ilka.

E’ nata nel 1979 a Comapa, in Guatemala, questa donna testarda e appassionata. Povera, bambina e femmina, è riuscita a diplomarsi in Educazione Fisica e a diventare arbitra di calcio, una delle sue passioni. Il “virile” mondo del calcio la tiene ai margini. Nel 2003 prende la grande decisione: affrontare il drammatico viaggio verso gli Stati Uniti, l’attraversamento del deserto di Sonora e l’approdo, con molta fortuna, in Arizona. Oggi vive a Chicago dove lavora come donna delle pulizie, dog-sitter e qualunque altro lavoretto degno di una indocumentata, di una clandestina. Ma il suo destino è la scrittura. Ha già pubblicato quattro libri su Amazon.com, due sull’attraversamento della frontiera e sul post-frontiera, e due libri di poesia. Ha un suo blog: Crónicas de una inquilina. “Pedigree” è la storia della sua infanzia. (A.R.)

Sono cresciuta in mezzo al fango, alla polvere e a lamiere ossidate. La mia infanzia è stata un poema ferito e incredibilmente bello. Sono cresciuta nel cuore di una fogna marginale che aveva un idillio con il villaggio e la sterpaglia. Mi sono rotolata fra i dirupi e arrampicata nei frutteti, ho corso fra i solchi di mais e di ortaggi ma ho anche camminato lungo i viali del mio grande amore in tante mattinate.

Le mie sere sono state popolate da tramonti color fior del fuoco e cieli cinerini addormentati fra le braccia delle montagne verde bottiglia di San Lucas Sacatepéquez. Sono cresciuta pascolando capre e automobii. Nella fragile età dell’innocenza mi hanno accompagnato grilli, scarafaggi, lucciole e cicale. Galline faraone, papere e lo stormo di pappagalli verdi che rallegravano le mattinate solcando il cielo in voli liberi. Era poesia il muschio bianco che ornava cipressi e pini nel villaggio El Calvario nel momento del freddo.

Sono cresciuta con il tempo contro, nelle urgenze e nelle pene del lavoro, la casa, la cura dei bambini e la scuola. Sono maturata di colpo in vari aspetti della mia vita, sono diventata adulta mentre mi caricavo della mia borsa porta gelati in spalla, tante ore sotto il sole e la tormenta; in altri aspetti, quasi per ribellione e sopravvivenza, sono rimasta bambina per proteggere la magia dell’ innocenza nell’età dei sogni.

I miei giochi infantili non contemplavano bambole, automobiline o giochi elettronici, a me è toccata la campagna e il fango. Lividi giocando al calcio che mi toccava pagare in carne viva quando mia madre mi picchiava per aver osato, tutti i giorni. E il calcio è diventato la passione della mia vita, per l’intimità e la complicità.

Sbronze interminabili nell’età dell’adolescenza e una bettola che era il rifugio della ragazzaglia della periferia. Le strade aperte che abbracciavano le nostre frustrazioni di paria, rifugio dalle pulizie sociali e difesa dell’allegria. Quando c’era da mangiare era un lusso inzuppare le tortillas nel brodo dei fagioli, se no metterci un po’ di sale. Fare acrobazie per fare in modo che le 24 ore bastassero per tutto quello che c’era da fare in casa.

Non mi ricordo di essere rimasta seduta un solo minuto per fare i compiti, li facevo camminando mentre badavo alle capre, pulivo il porcile, il pollaio o scopavo il patio. Su un pezzetto di carta appuntavo quello che mi sembrava importante riassumere e me lo portavo dietro per leggerlo in strada, mentre portavo la borsa dei gelati verso La Fresera, il mercato o il villaggio. O quando andavamo alla caserma El Calvario, attraversando tutto il villaggio fra i solchi degli orti e i frutteti, per andare a vendere gelati, merendine, frittelle di cigoli e pannocchie di mais.

La mia immaginazione si è aguzzata per la mancanza e il bisogno e per i giorni di Natale prendevo un doppio litro di gazzosa a credito nell’emporio all’angolo del quartiere e mi inventavo una riffa al mercato, fra i venditori; vendevo i numeri a 25 centesimi così potevo pagare il doppio litro e me ne avanzava per cercare di comprare le cose per la scuola a gennaio.

Per Natale facevo decorazioni natalizie con la carta che mi davano a credito gli empori del mercato e le vendevo insieme ai gelati. C’era fame, mancanza di scarpe, di indumenti e di cose per la scuola. Più due fratellini che cominciavano a camminare e la preoccupazione che non gli mancasse niente, che a loro non toccasse vivere la crudezza che era toccata a noi sorelle maggiori. Siamo state madri senza partorire, senza volerlo, ci è capitato di colpo nell’infanzia e la responsabilità ci ha rubato l’infanzia.

Quando la vendita andava a rilento offrivo i gelati ai venditori del mercato, la maggior parte era emigrata da Sololá, Toconicapán, San Marcos e Huehuetenango, tutti indigeni che vivevano negli spazi che avevano occupato. Quando compravano da me mi ripetevano, guardandomi diritto negli occhi: tu devi andar via da qui, devi andare a scuola e all’università, lo devi fare per te stessa e per noi. Non lo posso dimenticare come non posso dimenticare le lunghe mattinate in cui era ormai rutinario nascondermi dall’ispettore che buttava via i miei gelati perché non avevo il posto fisso e me ne stavo in piedi nel corridoio; ma io viaggiavo nel tempo verso luoghi remoti e le nubi erano il mio mezzo di trasporto, andavo lontano, molto lontano.

Il giornalaio è stato quello che mi ha permesso di leggere, tutte le domeniche mi lasciava a credito “Prensa Libre” perché mi piaceva molto il supplemento domenicale, divoravo le pagine, le storie che leggevo mi facevano sognare. Qualche volta pagavo e altre volete gli davo gelati in cambio e lui, fedele e puntuale, scontroso e paria, mi dava il giornale e gli luccicavano gli occhi quando vedeva la mia felicità nel prenderlo.

Nessun colto laureato mi ha mai messo nelle mani un libro, invece uno strillone, padre di cinque figli che un giorno lavorava come aiutante autista, spazzino, un giorno vendeva succhi di frutta, un altro faceva l’aiutante fabbro e ogni mattina presto vendeva giornali.

Sono cresciuta con le il peso della miseria e dell’esclusione sociale. Vengo da una delle fogne più profonde delle periferie guatemalteche, dove si respira emigrazione forzata, abusi polizieschi e pulizia sociale. Dove la fame e l’odore di morte fa la ronda fra la notte e l’alba. Dove l’acqua potabile è un miraggio. Dove la droga è un’uscita di emergenza. Dove abbondano i bambini che respirano colla, abbandonati, picchiati e vulnerati, più nel cuore che nella carne.

Vengo dalla carne viva dell’esclusione sociale, ho bevuto il fiele della miseria e nella mia pelle abitano marciti, innumerevoli lutti che non ho mai elaborato: perché non c’era tempo per piangere i morti mentre si combatteva per la vita nell’emarginazione della periferia. Sono stata sempre un’intrusa, maleodorante e puttana sieropositiva per una società classista, razzista e disumana che tratta come cricche criminali l’infanzia e l’adolescenza di periferia.

Negli anni di miseria e di interminabili necessità economiche, alla mia età di bambina debole e spaventata e nella mia adolescenza difficile, l’unica cosa che ho ricevuto dalle persone colte sono stati maltrattamenti, insulto e discriminazione per la mia origine di periferia, per il colore della mia pelle e per il mio lavoro di venditrice di gelati.

Invece, quelli che sapevano il mio nome erano i bambini sniffa colla, quelli delle maras, le puttane con Aids, gli autisti dei minibus, i bambini che raccoglievano la spazzatura e i venditori del mercato. Le bambine e le donne che scendevano dal villaggio per vendere i loro ortaggi. La Maria del Tomatal. Lo strillone e gli ubbriachi della bettola Las Galaxias, rifugio degli alienati.

Per la gente colta della capitale la venditrice di gelati dava sempre fastidio, quando, a dodici anni, si fermava all’uscita dell’Università di San Carlos a vendere gelati. Con l’illusione e la promessa che un giorno sarebbe uscita laureata proprio da quell’università. La stessa venditrice di gelati che si fermava all’uscita del Municipio e che dava fastidio ai lavoratori quando offriva con ansia, stanca ma sorridente per forza, i suoi gelati.

La stessa bambina che si fermava all’entrata del centro commerciale del viale Petapa per offrire i suoi gelati mentre guardava come gli altri bambini si divertivano dentro. Che correva dietro gli autobus sperando che la facessero salire a viale Bolívar per vendere i suoi gelati. La bambina innocente che camminava con la schiena gobba per il peso della borsa dei gelati, che si fermava all’uscita del Terminal degli autobus da dove la cacciavano a spintoni perché dava fastidio.

Vengo da lì, dalla fame, dalla miseria, dalla mancanza, dall’esclusione. Dalla depressione profonda che spinge al suicidio, all’emigrazione, alla dipendenza dalle droghe.

Non ho avuto la possibilità di leggere libri e ancor meno di farne un’abitudine, leggere è una perdita di tempo in una periferia dove l’infanzia lavora per cercare di sopravvivere. I libri li ho conosciuti da grande, ormai una ragazzina, quando studiavo Educazione Fisica al Magistero. Ho l’abitudine di leggere ma leggo molto poco perché nonostante gli anni passati continua a pesarmi mantenere l’attenzione su una sola cosa per molto tempo. L’unica cosa che riesce a mantenere la mia attenzione è scrivere, e la mia scrittura è assolutamente catartica. E’ un viaggio dentro di me e nell’ansietà delle mie emozioni.

Per cose della vita e del desiderio, -forse, voglio crederlo- ho finito per scrivere. E scrivo poesia che è la mia espressione più trasparente. E scrivo racconti e articoli di opinione. Ma non sono giornalista e ancor meno analista di politica estera, come molti credono, scrivo e basta. Scrivo perché se non lo faccio affogo nei miei stessi labirinti emozionali, perché dentro di me sono un uragano.

Non appartengo a nessun club di poeti, giornalisti o scrittori. Non frequento questo tipo di personaggi. Non mi piace, rifuggo da quel mondo dove mi sento scomoda e fuori posto. Non vado ai recital o a mostre di nessun tipo. Non accetto di fare conferenze né niente di simile. Scrivo e basta e affido le mie parole al vento, dalla finestra del mio diario in modo che, libere, si allontanino da me e trovino il loro destino.

Non mi piace scrivere con parole ricercate, non mi interessa apparire diversa da come sono, non mi interessano gli applausi, i complimenti e ancor meno le lusinghe. Non mi interessano i contatti importanti. L’importante per me sta altrove, molto lontano dall’accademia coi suoi mali.

La mia espressione è proprio quella della periferia, del popolo e dei villaggi, è tipica del mercato e così la voglio mantenere fino al giorno della mia morte. E’ roba mia, è quello che mi ha protetto nella mia infanzia, è stata il mio rifugio nell’adolescenza ed è la mia identità. Non ho nessun motivo di nascondere quello che sono. Non devo scrivere per cercare di far bella figura con qualcuno. Meno ancora con l’accademia.

Quando scrivo mi viene in mente la María del Tomatal, i venditori del mercato che mi parlavano mentre mi compravano il gelato, e risuonano con eco di nostalgia le loro parole. I miei amici spazzini, le bambine delle maquiladoras, i bambini sniffa colla. Mi viene alla mente l’odore tipico della mia periferia, la nostalgia del campo arato e il verde profondo delle montagne che hanno abbellito la mia infanzia. E mi serve solo questo per sapere qual è il mio posto nella vita, e qual è la mia posizione politica quando scrivo e per chi sono disposta a metterci la faccia e a offrire il petto fino al giorno della mia morte.

E scrivo così, naturale, trasparente in modo che se un qualche giorno i miei scritti arrivassero nelle vostre mani sappiate che non vi ho tradito, che le vostre parole sono rimaste nel mio cuore affinché capiate nel vostro linguaggio quello che la gente colta scrive con orgoglio di classe. Affinché sappiate che una di voi c’è e c’è per voi. Affinché lo strillone sappia che il suo seme à fiorito. E che scrivo semplicemente con la dignità di una venditrice del mercato.

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Ilka Oliva Corado @ilkaolivacorado contacto@cronicasdeunainquilina.wordpress.com

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